Attenti a Viola

Mi ricordo che quando ero più piccola mi lamentavo spesso delle bugie dette male. In particolare, mi riferisco a quelle bugie nate per attirare attenzione e che non danneggiano il prossimo. Quelle del tipo ”Io ho letto tutti i libri di Harry Potter” oppure ”Mi hanno detto che la pizza più buona del mondo la fanno in un posto di fronte ad un negozio di cappelli e guarda caso dalla vetrata di questa pizzeria vedo un negozio di cappelli. Quindi, è questo il posto!”.
Bugie del genere mi capita di ascoltarle ancora oggi, purtroppo, ma gli anni mi hanno regalato più leggerezza e un senso della giustizia meno pressante. Così, se mi accorgo che qualcuno sta mentendo lascio correre.
Oggi.
Ma in passato, no.
Non potevo lasciar stare, non sapevo chiudere un occhio e permettere che qualcuno mentisse e che, magari, si prendesse meriti a lui estranei.
Perciò, quando captavo una bugia ricorrevo ad un infallibile metodo: inventavo una bugia correlata a quella sentita, ma detta con un tanto grande entusiasmo che il bugiardo in questione non poteva che assecondarmi, dando credito a qualcosa di finto. Ecco fatto. Sgamato!
Riporto un esempio perché me lo ricordo e perché -sarò sincera- mi diverte molto sapere che a 12 anni circa ero così adorabile.
Io: ”ieri sera ho visto Ritorno al futuro.”
X: ”anche io ieri sera l’ho visto!”
Io: ”Hai visto quando incontra nel futuro quella ragazza con i capelli rossi? Mi fa troppo ridere!”
X: ”si, anche a me, è troppo simpatica!”
Inutile dire che non c’era nessuna ragazza con i capelli rossi troppo simpatica.
C’era solo una bimba con gli occhioni marroni, i capelli troppo lunghi e uno spiccato egocentrismo.
Probabilmente ho iniziato troppo presto a vedere i gialli con Poirot e Miss Marple, o forse sono stati gli indovinelli e le cacce al tesoro che spesso i miei genitori mi proponevano. Non so, ma sta di fatto che la tendenza a smascherare un misfatto, anche se innocuo e infantile, era insita in me e non sapevo tenerla a bada.
Questa spinta al vero era, però, bilanciata da un impulso diverso che non so per certo come definire. Forse si trattava di comprensività o semplicemente di educazione.
Proprio grazie a questo impulso, non palesavo quali fossero le mie intenzioni e non rivelavo a nessuno che usassi talvolta le mie domande per smentire delle affermazioni.
I miei interlocutori ormai sbugiardati continuavano a credere che la ragazza coi capelli rossi di Ritorno al futuro, per intenderci, esistesse e che fosse troppo simpatica. Credevo fermamente che far capire che avevo capito fosse a suo modo una piccola umiliazione per quel X, che con buona probabilità voleva soltanto attirare la mia attenzione o sentirsi partecipe di un breve momento.
Per cui evitavo di svelare il tutto, anche se solo al diretto interessato, e mi compiacevo intimamente di aver riconosciuto una bugia.
Lo sapevo solo io, insomma, e andava bene così.

Quando la sensibilizzazione Viola la sensibilità

Oggi vi racconto una breve storia che ha per protagonista una mia cara amica, una ventiduenne molto carina con cui c’è stata una gran confidenza fin da subito.

Poco tempo fa succede che Melania, dotata di tagliando per disabili, parcheggia in un posto apposito, segnato da strisce gialle, per intenderci.

Sbriga le sue faccende nel tempo che richiedono ed, in compagnia di un’amica, ritorna alla sua auto.

Lì, sullo specchietto laterale sinistro, trova un adesivo che ritrae il classico logo per disabili accompagnato da una didascalia, a cui lei non fa caso, però.

Questo perché si sente ferita. Qualcuno le ha marchiato l’auto con qualcosa che ha già dovuto accettare.
Infatti, la sua disabilità è piuttosto recente: nuova quanto basta per fare male ancora.
Ci convive da sempre, ma gli effetti del suo handicap si stanno manifestando da poco tempo.

A mio avviso, se la sua condizione fisica le fosse stata totalmente estranea o se fosse stata abituata ad essa, probabilmente quell’adesivo non l’avrebbe toccata più di tanto.

È la familiarità con qualcosa che permette di dosare il suo peso; mentre, è la poca dimestichezza che rende quel qualcosa un vero e proprio macigno.
Sembra quasi quel timore mattutino nel mettere i piedi nudi sul pavimento: l’impatto iniziale risulta sempre brusco, ma pian piano ci si abitua.

Ritornando al pomeriggio di Melania e all’adesivo, bisogna dire che, anche se le etichette sono per le scatolette di tonno e non per le persone (come afferma il personaggio  di Liz in Nip/Tuck), esse sono talvolta necessarie per una più semplice vita. Ciò non toglie che un’etichetta o un segno, che dir si voglia, è qualcosa che porti addosso, che si cicatrizza col tempo.

Ma, a questo punto, mi pare ovvio interrogarmi su una cosa: essendoci già un segno sulla macchina di Melania (quello del tagliando per disabili), essendo, quindi, già stato metabolizzato l’essere categorizzati, qual è la ragione per cui serva metterne un altro illecitamente?

Il punto che ha infastidito Melania è proprio questo.

”Anche se la disabile non fossi stata io, ma una persona che in quel momento si trovava con me, mi sarebbe dispiaciuto ugualmente. Disabile o no, non mi interessa.” mi ha detto. Dopodiché mi ha spiegato ”Sulla mia auto avevo esposto il tagliando per invalidi, per cui ho palesato la presenza di una persona con delle difficoltà. Non riesco a capire il motivo per il quale un passante abbia deciso di ribadire la mia disabilità, o di chiunque altro fosse stata.”

Non sono riuscita a dare una spiegazione a Melania. Il mistero rimane irrisolto.

C’è da dire, però, che l’adesivo in questione riportava una frase ”Qui non posso entrare”.

Sembra chiaro che fosse uno dei tanti adesivi da affiggere all’entrata di negozi o affini che presentano un qualsiasi tipo di barriera architettonica. Era quindi uno strumento per diffondere un importante messaggio, un tentativo di sensibilizzare, trasformare, aprire gli occhi.

In effetti, la maggior parte dei luoghi urbani sono  sprovvisti di pedana removibile e sono, invece, muniti di gradini, i quali non consentono l’accesso a persone in carrozzina, a meno che queste ultime non siano aiutate da altri.
La semplice applicazione di un adesivo del genere rinvia alla speranza che qualcosa si muova, cambi.

Se il gesto di cui è stata  spettatrice e bersaglio Melania mirava a sensibilizzare, mi chiedo una cosa: tu, passante, sensibilizzi un portatore di handicap? Melania aveva appoggiato il cartellino per disabili sul vetro della sua auto, era in bella mostra. Per di più, le macchine circostanti erano prive dei suddetti adesivi. Che senso ha avuto la tua azione? Vuoi far aprire gli occhi soltanto a chi ce li ha già aperti?

Non posso non pensare alla scena di Arancia Meccanica in cui Alexander è costretto a guardare quegli spezzoni di violenza.

A volte basterebbe chiudere gli occhi, almeno per un attimo. Un battito di ciglia per cambiare punto di vista. Coprirsi gli occhi con le mani per scegliere di non guardare.

Diciamo che il sensibilizzatore manca di sensibilità, anzi, diciamola tutta: il passante non aveva fini sensibilizzatori, altrimenti avrebbe condiviso il messaggio con altri, applicando l’adesivo anche sulle auto vicine o nei luoghi opportuni (i negozi o i bar con ostacoli architettonici).

È stata una bravata, dai. Un’opera di riciclo… ”Mi sbarazzo di questo adesivo mettendolo sullo specchietto di quest’auto, tanto ha già un disabile a bordo.” avrà pensato.

Giustissimo.

Dov’è andato a finire quell’unico neurone che avevi, passante?